I magazine inglesi ne parlano da ormai un anno: soluzioni per il momento non se ne sono trovate, qualche tentativo di mettere un argine sì. La crisi della musica live in Inghilterra, e a Londra in particolare, preoccupa e non poco. Perché è la città che negli ultimi 50 anni abbondanti è stata il motore del settore per tutta l’Europa, quella anticipatrice di ogni trend e che maggiormente ha sperimentato in questo ambito.
Poi, però, è arrivata la Brexit. Non che il “problema” stia tutto lì, ma di certo ha fatto da detonatore a tutta una serie di distorsioni del sistema che ora presentano il conto. E così siamo arrivati a una situazione in cui non passa settimana senza che chiuda un locale, mentre tour importanti non passano più da quello che un tempo era un approdo naturale e inevitabile.
Insomma, un bel casino. Ma nulla a cui noi italiani non siamo abituati, visto che non abbiamo mai avuto il mercato dei live della città inglese, nemmeno nei nostri centri principali. Di come stiano davvero le cose a Londra e di come da Londra si guardi alla realtà di casa nostra, abbiamo parlato con Raissa Pardini.
Classe 1988, toscana, è una visual designer specializzata in tipografia digitale. Negli anni ha lavorato con i brand e le testate più importanti al mondo, ma anche con etichette e band, per cui ha realizzato copertine, merch, materiale grafico. Qualche nome? Forse ne basta uno (ma sarebbero moltissimi): i Rolling Stones. O i Maneskin se invece volete essere autarchici.
Assieme a questo lavoro – con cui gira nelle gallerie di tutto il mondo con le sue opere e tiene speech alle più importanti conferenze ed eventi – è attiva nella scena musicale anche in altre vesti, ad esempio quello di manager. C’è lei, ad esempio, dietro una band fighissima come lecumgirl8, che abbiamo visto all’ultimo MI AMI.
Ecco la nostra conversazione con lei.

Lawrence

Music City and The Lemon Twigs

Owen from The Tubs

Music City and The Tubs

Me touring with Dream Wife

Thandii in Margate

Third Man Records stall at the label’s market

DNSC at Rough Trade

Me Djing at the Franz Ferdinand afterparty at Ally Pally

Speedways with Billie Joe.

Me and Conor Music City at Wide Awake

cumgirl8 at Greenman

Will, Amy and Sadie from 4AD

Foggy from Secretly, Daisy and Danny fro Heavenly and sweet Lucy

Me with Ghost Car at their album launch

Music City

Amy and Joanie from Mexican Summer at the Labels’ Market

Ale Gianferrara

cumgirl8 at Rough TRade
Come definiresti il tuo lavoro oggi?
Mi sveglio e penso a come far arrivare l’arte e la musica più lontano, più forte, più inaspettata. Che sia con il design, il management o altro, alla fine il mio lavoro è dare forma a un messaggio. Creo identità visive, aiuto band a trovare la loro strada, costruisco connessioni tra suono, immagine e pubblico. È tutto collegato ed è tutto molto bello. Quest’anno voglio imparare a costruire sedie e dar loro il mio stile.
Come trovi gli equilibri?
Non li trovo. O meglio, li creo ogni giorno in modo diverso. Non esiste una formula, esiste solo la capacità di capire quando un progetto ha bisogno di più energia e quando puoi lasciare che respiri da solo. Se vuoi lavorare con l’arte, devi essere elastic*.
Come hai trovato le cumgirl8?
Le cumgirl8 mi hanno trovata tanto quanto io ho trovato loro. Sono una band che non ha paura di rischiare, e questo è raro. Io e Chase (batterista) ci conosciamo da molto tempo. Siamo state in tour e in giro allo stesso tempo, ci siamo ritrovate sotto lo stesso tetto più volte, il vero valore della musica.
Come hai visto cambiare Londra dal punto di vista del mercato musicale?
Sono arrivata quando Londra era ancora un melting pot per la musica indipendente. C’erano venue ovunque, ogni sera trovavi qualcosa di interessante. Ora il panorama è più complicato: gli affitti salgono, gli spazi chiudono, i costi per i tour esplodono. La scena resiste, ma deve reinventarsi continuamente e perdiamo sempre piu’ musicist* durante il percorso.
Quali le differenze più grandi con la musica italiana?
In UK la cultura della musica live è radicata. Puoi suonare in un pub e trovarti davanti gente che davvero è lì per ascoltare, per scoprire. In Italia spesso manca questo tessuto intermedio tra il piccolo e il grande: o sei in un circuito ultra-indipendente o sei in una major. Servono più spazi per chi sta nel mezzo. E comunque la lingua fa parte di tanti ostacoli ma e’ anche la bellezza della scena musicale, a mio parere. Tradurla ne ammazzerebbe il romanticismo e il vocabolario poeta, molto più ampio di quello inglese. Inoltre la gente è abituata a uscire per vedere una band emergente, anche in un piccolo pub. In Italia c’è una divisione più netta tra mainstream e underground. La quantità di concerti in UK è impressionante, ma anche qui la situazione sta diventando difficile.
Sanremo l’hai visto?
Sanremo è l’ennesima dimostrazione di quanto l’industria musicale italiana sia ingessata su vecchie dinamiche. È surreale vedere un intero settore fermarsi per una settimana, come se la musica esistesse solo dentro quel teatro. Da Londra sembra quasi un reality show nostalgico: grande spettacolo, certo, ma è davvero progresso o solo una comfort zone che alimenta sempre gli stessi meccanismi? La musica dovrebbe correre, non aspettare. Poi però arriva qualcuno come Lucio Corsi e ti ricorda che l’Italia ha ancora scintille di visione. Ma attenzione: non è un “outsider” sbucato dal nulla, ha un team solido dietro, costruisce il suo immaginario da anni e fa musica da moltissimo tempo. E allora viene da chiedersi: perché certe audience lo scoprono solo ora, grazie a Sanremo? Serve davvero un palco così ingombrante per dare spazio a chi è innovativo, o dovremmo rivedere il modo in cui diamo valore alla musica in Italia? Più fiducia a chi comincia. La musica non è un hobby, come il design o la fotografia. È un lavoro, e come tale va trattato. Perché fermare qualcuno che vuole creare per vivere? Se l’industria non smette di guardare solo indietro, chi prova a fare qualcosa di nuovo si scontra sempre con lo stesso muro. Forse è ora di abbatterlo?
Cos’è successo con la Brexit?
Tra visti, tasse e burocrazia, muoversi tra UK ed Europa è diventato un incubo, soprattutto per le band emergenti. Molti tour sono stati cancellati perché semplicemente non è più sostenibile. È una ferita enorme per la musica.
C’è meno scelta oggi in UK?
Sì, e lo dicono i numeri. Ci sono meno venue, meno possibilità per gli artisti di iniziare, meno investimenti nelle realtà piccole. La scena c’è ancora, ma devi scavare di più per trovarla. Si gioca tutti un po’ piu’ safe e non fa mai bene al talento.
Manca l’offerta, la domanda o entrambe?
L’offerta c’è ancora, ma è più difficile da sostenere. Il pubblico c’è, ma le difficoltà economiche e la mancanza di spazi stanno creando un circolo vizioso. La domanda è sempre più selettiva, puoi passare mesi a mandare email ad A&R senza nessuna risposta, anche se sono amici/amiche (lol). Nessuno ha tempo di far nulla ma allora perche’ mettersi in gioco con la musica se non ci se ne dedica al 100%?
Nel 2024 il Music Venue Trust ha pubblicato un rapporto abbastanza catastrofico. Com’è la situazione dal tuo punto di vista?
È critica. Tanti piccoli venue chiudono, e senza di loro non c’è futuro per la musica dal vivo. Non possiamo permetterci di perdere questi spazi. Non è una crisi passeggera, è un crollo strutturale. Se non si interviene, la musica dal vivo indipendente rischia di diventare un lusso per pochi. Ne parliamo pero’ e ci fa bene.
In Italia c’è una separazione enorme tra grandi produzioni con il vento in poppa e chi non ha più alcuno spazio a disposizione.
C’è una polarizzazione anche qui, ma ci sono più possibilità per chi è nel mezzo. Devi essere brav*, devi essere testard*, ma puoi trovare il tuo spazio. Poi dipenderà da “se” o “come” questo spazio riesce a sostenerti come artista, perche’ non tutti ce la fanno.
Che tipo di locali chiudono?
Soprattutto quelli piccoli e indipendenti, quelli che hanno fatto crescere intere generazioni di band. Ogni volta che chiude un club, chiude anche un pezzo di storia musicale.
Quale l’alternativa al posto della musica live?
Un sacco di house parties e eventi sempre più ai confini della città, dove si respira una brezza d’aria molto fresca.
Il governo UK aveva proposto un regime “di solidarietà” con aiuti da aprte dei big nei confronti di piccoli locali e indipendenti. Sta funzionando?
Funziona a metà. Sono misure tampone, ma non bastano per invertire la rotta. Serve un investimento serio. Sembra che non si capisca il valore monetario della cultura. Se non culturale, si spererebbe che si facessero un po’ in conti in tasca perche’ i numeri li aiuterebbero a pensarci sopra.
Come se ne esce?
Andando ai concerti, sostenendo le band, comprando la musica, il merch, parlando di quello che sta succedendo. Nessuno salverà la musica indipendente al posto nostro.
Ci dici tre artisti che dobbiamo scoprire al piu presto…
Impossibile : )
Ve ne do una con la quale sto lavorando con il design: Jessica Winter. Jessica è davvero il futuro del pop, senza limiti.
Ed altre tre con le quali lavoro con il management (oltre a chi già conoscete: le cumgirl8):
Music City – Irlandese, di base a Londra, pop a la Todd Rundgren e difatti appena stato in tour con i Lemon Twigs (fra l’altro anche all’Estragon di Bologna);
The Tubs – London based, usciti su Trouble in Mind. Molto più cantautorato in chiave super early indie;
Pigeon – Un mix di elettronica e West African influences, faranno sicuramente il botto quest’anno. Tenetevi stretti!
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L’articolo Nessuno salverà la musica indipendente al posto nostro: la crisi della musica live in UK e in Italia vista da Londra di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2025-03-06 10:31:00